Una mattina di festa, una vacanza appena
iniziata, un giorno di lavoro come tanti, un momento di unione famigliare e di
felicità. Poi, in quel maledetto ponte, insieme ai fatiscenti piloni si
frantumano i sogni di 42 persone e con questi le speranze di milioni di
italiani. In quel ponte maledetto c'eravamo tutti e il disastro ci ha
scaraventati giù nel baratro della disperazione e della diffidenza, nelle
sabbie mobili del sospetto e della sfiducia. Dentro
la mente di ognuno di noi c'è ancora l'amara sensazione, l'incubo, di cadere in
quel vuoto, l'incredulità che tutto ciò stia avvenendo veramente, il volto
terrorizzato dei nostri cari, dei nostri figli, che non abbiamo avuto nemmeno
il tempo di salutare e abbracciare. Malgrado il frastuono delle sirene, delle
televisioni d'assalto e dei giornalisti che ci impongono la triste realtà con
particolari che non hanno niente di deontologico, dei politici che si scambiano
vicendevolmente le colpe del disastro, nel nostro cuore e nella nostra anima
vige il silenzio, un silenzio dignitoso che urla a se stessi e al mondo quanto
non si possa accettare un fatto come questo. Ci promettono giustizia e ci
scodellano come sempre atti burocratici che più che a dirci che tutto era sotto
controllo servono a tranquillizzare le loro coscienze, ammesso che ne abbiano
mai avuto una. Cercano di disimpegnarsi moralmente nell'attesa che tutto venga
dimenticato. Utilizzeranno la macchina del fango e di distrazione di massa per
lavarsi la coscienza dal lordume di cui sono ricoperti e così cercheranno di
disinnescare quel senso di colpa col quale prima o poi avranno a che fare. Io
ero virtualmente su quel ponte come me tantissimi altri di buona volontà, come
tutti quegli angeli che per giorni hanno scavato a mani nude alla ricerca di un
lamento, di una voce, di un bambino. Io sono Genova e sappiate che non
riuscirete facilmente a farmi dimenticare. Io sono Genova e difficilmente
riuscirete a farvi perdonare. E comunque, niente sarà più come prima.
Fabio Barbarossa
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