giovedì 15 settembre 2016

Il dubbio

Spesso nella vita di ognuno di noi  si manifestano dubbi e perplessità che poi col crescere e con l'esperienza si affievoliscono sino a diventare fatti di routine.  Così, nel mio lavoro, i dubbi e le perplessità hanno lo spazio di pochi secondi. Il tempo necessario a collocare nella giusta posizione il fatto e trarne di conseguenza la soluzione. Ma oggi no. La mia consapevolezza professionale e' stata messa in crisi in modo diretto e inequivocabile da un semplice cartoncino di  9 cm x 4,5, di colore blu, messomi davanti da un paziente anziano in cui era raffigurato il logo Barilla e la scritta in bianco 
"MEZZE PENNE RIGATE" cottura 11 minuti 

Sono momenti terribili. 
Momenti in cui tutta la vita ti passa davanti in un baleno. 
Momenti in cui pensi che ormai la demenza senile si rivolge su di te. 
Momenti in cui pensi che il fatto di essere un dottore e' solo nella tua mente malata e che non ti sei mai laureato in medicina e chirurgia, ma sei sempre stato commesso in un negozio alimentari e che quel cartellino e' la tua vera, triste, realtà. 
Già.
Istintivamente penso in che scaffale siano le mezze penne. Sicuramente vicino ai fusilli e alle orecchiette. 
Poi, dopo aver guardato per 10 secondi dritto negli occhi il signore  davanti a me, come un vecchio e incallito giocatore di poker, prendo il cartoncino e lentamente, molto lentamente, lo giro.

"Spiriva e Striverdi per Antonia. Le strisce sono scadute. Registrare nel computer"

Nella parte posteriore del cartellino Barilla era celata una richiesta di farmaci. Strisce per la misurazione della glicemia e registrazione del Piano Terapeutico. 
Grazie a Dio. Sono un medico. E credo di non essere affetto da demenza, anche se per pochi istanti mi sono visto dietro il banco, con la matita dietro l'orecchio ad affettare mortadella e salame alle erbe. 
Ma a pensarci bene forse oggi non mi sarebbe poi dispiaciuto.

Fabio Barbarossa

Primo giorno di scuola media di mio figlio Matteo


Arriviamo in auto in vicinanza della scuola.  
Siamo circa cento genitori con relative auto per una possibilità di capienza di non più di 10 macchine. 
Intasamento mostruoso perché la strada finisce li. 
Come posso, minacciato da alcune madri li da alcune ore, faccio scendere Matteo e gli indico la strada per la  buona scuola. Dopo tre tentativi di manovra, un linciaggio e tre faide appena aperte con gli insegnanti appena esclusi dalla buona scuola, mi avvio alla ricerca disperata di un parcheggio. 
Dopo alcuni kilometri ne trovo uno e mi ci infilo senza esitazione, tra la rabbia e l'invidia degli altri genitori. Sono davanti ad una scuola confinante con la mia e, come mi dissero un anno fa, c'era tra le due un passaggio interno. Tutto, pur di vedere il primo giorno delle medie di mio figlio. 
Entro nell'androne della scuola e cortesemente chiedo ad una giovane ragazza (studentessa? Insegnante?) se conoscesse il passaggio segreto.

- Si. Certo. Faccia le scale sino alla fine. Esca dalla porta a destra e si troverà in un campo di pallacanestro. Poi faccia una  salitina e si troverà davanti alla sua scuola.

- Grazie. Molto gentile.

La camminata sulle scale era poco meno del Cammino di Santiago di Compostela. Quando sono uscito dalla porta a destra, come da indicazioni, sarà per la vicinanza con la fede religiosa, ho visto Santiago di Compostela seduto sullo stipite del canestro del campo di pallacanestro.
Comunque va bene. Ci siamo. Tutto pur di vedere Matteo al suo primo giorno di scuola media.  
Mi guardo intorno e cerco una "piccola salitina". Sarà questa, immagino. 
Più o meno come raggiungere il campo base per la scalata all'Everest. 
Con in più cocci di vetro e sabbie mobili. O la va o la spacca. Salgo. Un passo avanti e due indietro. Resisto. 
Ambrogio Fogar e il suo cane Armaduk mi sono stati virtualmente vicini. Arrivo al campo base e ahimè tra me e l'agognata scuola c'era una rete metallica a prova di migranti. 
Nooo. Non è possibile. Ma per il primo giorno di scuola media di Matteo, questo ed altro. Vado verso la salitina, che nel frattempo era diventata "discesina", più o meno come una banalissima discesa col bob a quattro. Ho messo a dura prova i miei glutei. Ok. Arrivo davanti alla scuola di partenza. Cerco la porta da cui sono uscito e la trovo disgraziatamente chiusa. Porta antipanico. Si può aprire solo dall'interno. Ormai nel pieno di una crisi confusionale guardo la scuola ancora vuota. Le lezioni iniziano forse domani. Mi guardo intorno. 
La scuola ha una vaga e poco rassicurante somiglianza con Alcatraz. Piccole finestre totalmente disabitate. 
Il cuore mi batte forte, anzi vibra. No, era solo il cellulare che mi ricordava di portare Matteo a scuola. Cellullare??

- Pronto, Scuola Sinotto?

- Siii.

- Senta, so che e' imbarazzante, sono nel campo interno della scuola e non riesco a rientrare per poter uscire.

- e cosa ci fa lei li?

Così risponde una signora acida che al confronto l'acido solforico e' camomilla.

- scusi. Ha ragione. Mi avevano detto che tra questa e l'altra scuola c'era una scorciatoia. Va be. Lasci perdere.

- dove si trova esattamente?

- guardi, qui sul muro c'è una balena disegnata.

- va bene. Resti li. Non si muova.

In attesa del mio carnefice guardo dietro il vetro della porta e scorgo un signore che girava tra le aule.

- scusi...scusi...signore

Mi agito muovendo le braccia a mo di farfalla.
Mi vede.

- mi apre la porta, per carità?

Vedendo la mia disperazione si avvicina subito.

- cosa ci fa lei qua?

- lasci perdere. Troppo lunga. La ringrazio. Arrivederla. Saluti la famiglia.

Scendo le scale con passo calibrato e mentalmente penso a come rispondere alla Signora Trinciabue che nel frattempo mi stava cercando.

- Sono il Professor Quattrocchi dell'ispettorato della Buona Scuola Sono qui per verificare se i docenti sono felici.

Fortunatamente per me non l'ho incontrata e ho potuto guadagnare l'uscita senza intoppi.
Per la cronaca, dopo un lungo ma fortunato giro, ho fatto in tempo a vedere Matteo al suo primo giorno di scuola media.

- come va papà? Trovato parcheggio?

- certo amore. Senza problemi.

E qui ho perso conoscenza.


Fabio Barbarossa.

FERTILITY DAY


Ho aspettato sino ad oggi che le acque si rompessero, ma soprattutto ho aspettato che l’Illuminato Primo Ministro Renzi ci erudisse in merito al Fertility Day e, per dirla sempre in termini idrici ostetrico ginecologici, mi sembra che il Premier se ne sia ampiamente lavato le mani.
Bene. Ciò premesso, veniamo al problema. Fertility Day. Questo sconosciuto. Intanto, essendo noi italiani d’Italia, mi sarei aspettato l’utilizzo della nostra lingua per definire qualcosa che ci riguarda. Giorno della fertilità, potrebbe essere la traduzione in italiano, almeno fino a quando l’Accademia della Crusca non riesca a trovare un termine più appropriato.
L’unico “giorno della fertilità” che conosco, chiedo scusa per la deformazione professionale, è quello dell’ovulazione che avviene in una donna in età fertile e in condizioni normali intorno al 14° giorno del ciclo mestruale.
Bisogna stare attenti ai termini, perché si sa, anche una piccola possibilità di interpretazione potrebbe provocare gravi equivoci, più o meno come le leggi italiane.
Quindi, giusto per mettere i puntini sulle i:
Giorno della fertilità o giorno dell’ovulazione?
Apparentemente non ci sarebbero differenze, ma così non è.
Tanti anni fa, da giovane studente di buone speranze, il termine ovulazione suscitava un certo timore reverenziale che in casi eccezionali poteva portare sino al panico.
Alla parola ovulazione poteva essere associata la gravidanza con  possibilità di  drammi plurifamiliari, che innescavano una serie di reazioni a catena, non ultima quella dell’acquisizione forzosa di due suoceri.
Allora restare incinta comportava una serie di fatti che andavano dal lieto al tragico.
Voleva dire interrompere un corso di studi o rinunciare ad un lavoro acquisito con difficoltà e sacrifici.
Voleva dire tornare alla casa paterna per l’impossibilità di sostenere il grave carico economico da ciò derivante.
Voleva dire non sapere a chi affidare i piccoli a causa della mancanza di asili o ancor peggio per il costo insostenibile di questi.
Voleva dire non essere in grado di sostenere i costi di una gravidanza in termini di assistenza sanitaria.
Voleva dire accollarsi in gran parte i costi se il nascituro avesse avuto malattie di qualche genere.
Voleva dire essere discriminate, come madri, nell’inserimento e nella prosecuzione nel mondo del lavoro.
Insomma, voleva dire, a parte poche eccezioni, un vero e proprio incubo.
Un momento. Ad essere obbiettivi  non mi sembra che  le cose oggi siano poi tanto cambiate. A pensarci bene forse è per questo che le giovani coppie continuano a guardare con diffidenza e timore alla fertilità e all’ovulazione? E magari sarà per questo che la Ministra Lorenzin ci vuole tranquillizzare sulla procreazione con una giornata specifica, effetti speciali, tarallucci e vino? Ma in definitiva le parole illuminanti del premier non lasciano spazi ad interpretazione:
“Per fare figli non servono Cartelloni”.
Strano, non ce n’eravamo accorti.


Fabio Barbarossa 

mercoledì 24 agosto 2016

L'Informazione 2 - Cui Prodest?

Cui prodest? A chi giova?


Cosi diceva Marco Tullio Cicerone oltre 2000 anni fa. Questa celebre frase, complici i miei studi liceali di tanto tempo fa, mi è venuta in mente ascoltando questa mattina Radio RAI, in occasione dei drammatici fatti del terremoto dell’Italia Centrale. Edizioni straordinarie a cornice di altre edizioni straordinarie. Inviati speciali in ogni dove, spintisi persino  in località amene e remote,  comuni solo a chi ci è nato e a chi, purtroppo, in questa circostanza ci è appena morto.  Collegamenti continui con coordinatori che coordinano i coordinatori che coordinano il nulla assoluto. Ansia di sapere, possibilmente in presa diretta, le impressioni e i fatti direttamente dalle persone interessate. Giornalisti d’assalto all’arrembaggio di poveri cristi o dei loro familiari su che impressione fa stare sotto i crolli o sapere che il proprio genitore, o ancora peggio  il proprio figlio, è sotto tonnellate di macerie. Istintivamente mi verrebbe da rispondere “provare per credere”.  Ma sono una persona intellettualmente pacifica e non mi permetterei mai di mettere in discussione il lavoro degli altri, specialmente quando è in gioco il diritto/dovere di cronaca. E allora mi viene in mente un’altra semplice parola. Etica. Etica del diritto/dovere di cronaca. E’ lecito, mi chiedo, che in nome del diritto di cronaca vengano affrontati e descritti fatti, non tanto privilegiando la completezza e la veridicità dell’informazione, ma cavalcando le logiche della spettacolarizzazione e lo scoop a tutti i costi? Cui prodest documentare con meticolosità maniacale il dolore e le lacrime di persone fragili e indifese che in un attimo hanno perso tutto ciò che di caro avevano nella vita? Cui prodest creare una situazione di panico misto a rabbia e impotenza in tutta una società che recentemente sta già vivendo momenti di panico e depressione? Ci viene detto che il pubblico non si accontenta più della notizia. Che vuole qualcosa in più e che lo stesso fatto deve avvenire attraverso una narrazione e una ricostruzione di fatti che quasi sempre approdano ad un  tragico spettacolo che spesso poi porta ad eventuali fiction o, ancor peggio, a reality show. Io non sono tra gli italiani che seguono questo tipo di informazione. Non lo sono perché per formazione mentale e professionale, sono abituato a vivere i drammi e le tragedie altrui col massimo rispetto e umiltà, spesso nel dovuto silenzio, perché al di là di quello che si definisce diritto/dovere di cronaca ci sono una serie di interpretazioni che non possono prescindere dal rispetto del dolore di chi in prima persona si trova a vivere, o ha appena vissuto, un dramma immane.


Fabio Barbarossa

Pubblicato su L'Unione Sarda del 31 agosto 2016

Bollettino Sanitario del Dottor Fabio Barbarossa

Da ieri ho una fastidiosa laringotracheite con iperpiressia che mi hanno costretto ad una riduzione delle attività fisiche, ma non intellettive. 

La diagnosi è stata fatta dalla totalità dei miei clienti. 

Le cause sono state attribuite all'aria condizionata per un buon 80%, all'inquinamento terrestre e alle scie luminose del cielo per il 15%, ai virus per il 3%, ai batteri per il 2%. 

La terapia consigliatami:

- riposo assoluto a letto (dottore, visto che c'è, me la misura la     pressione?) 
- una cassetta di fichi neri appena colti
- un bicchierino di mirto fatto in casa tre volte al giorno (ich!)
- uno spicchio di pecorino di produzione locale
- una terapia antibiotica
- un antivirale (solo i più esperti)
- la tachipirina 
- un decotto di cipolla, menta, aglio e prezzemolo (dottore, mia nonna era guarita così dalla malaria nel 1937).
Come tutti i medici sono restio a fare terapie farmacologiche in quanto conosciamo a memoria i bugiardini (ci sarà pure un motivo per cui si chiamano così)


Pertanto, seguendo il volere popolare, mi curerò con: 

- 5 fichi neri tre volte al giorno per 6 giorni
- gargarismi e suffumigi di liquore al mirto prima di andare a letto (ich!).
- un cucchiaio di decotto di cipolla, menta, aglio e prezzemolo solo al bisogno in caso di febbre alta. Ottimo anche per allontanare le zanzare tigre.
- una fetta di pecorino tre volte al giorno per reintegrare la flora batterica.

Il riposo a letto solo quando avrò raggiunto l'età pensionabile.
Un abbraccio a tutti.

Dottor Fabio Barbarossa
Medico di Campagna

mercoledì 17 agosto 2016

Su Bugginu.

“Se non fai da bravo, arriva l’Uomo Nero e ti porta via!”
E chi l’avrebbe mai detto. A furia di minacciarci, di uomini neri ne sono arrivati a migliaia e probabilmente, tra poco, a milioni. Da piccoli, quando ancora la ragione era razionale e libera da ogni condizionamento, soprattutto politico, venivamo minacciati con lo spauracchio dell’Uomo Nero. E chi mai sarà costui e che cosa mi dovrebbe fare, e perchè? Intanto il tempo passava e di uomini neri non se ne vedevano. Avranno altro da fare, pensavo. Nei primi anni della mia vita verificavo con molta attenzione il colore della pelle delle persone e non appena vedevo qualcuno più scuro degli altri cominciavo ad allarmarmi. Finalmente, dopo tanti anni e diverse minacce cadute nel vuoto, mi sono reso conto che l’uomo nero poi non esisteva. Anzi, esisteva, ma si faceva gli affari suoi, più o meno come quello giallo, verde, rosso e arcobaleno.
E così sono cresciuto diventando a mia volta oggetto di paura o spauracchio per tanti altri bambini come lo sono stato io. “Se non fai da bravo, ti porto dal Dottore”. Non solo: “se non fai da bravo ti porto dal dottore che ti fa la puntura”. Come Dottore ho passato la mia vita professionale a tranquillizzare i piccoli pazientini, che spesso cominciavano ad urlare in vicinanza del mio studio. Ci sono voluti anni e diverse generazioni per far capire ai piccoli che ad andare da “Barbarossa” non solo non c’era pericolo, ma si potevano rimediare penne e quaderni generosamente offerti dalle case farmaceutiche. Però da grande ho finalmente capito che tutto sommato la minaccia era reale e che in definitiva in questa c’erano delle basi ancestrali che avevano marchiato in modo indelebile il nostro codice genetico. La paura dell’uomo nero non era poi così infondata, come non è infondata la paura del medico. Provate ad andare, chiaramente per necessità, in ciò che ancora oggi ci ostiniamo a definire Pronto Soccorso, i cui parcheggi sono gestiti da neri minacciosi. Altro che uomo nero o Dottore che ti fa la puntura. Per questo, senza generalizzare o creare panico per nostri figli, la minaccia esiste solo se noi, adulti raziocinanti, non saremo in grado di proteggerli da qualunque cosa possa ledere la loro libertà e sicurezza, magari aggiungendo all’Uomo Nero anche il notificatore di Equitalia (a Cagliari su Bugginu) o il messo di Abbanoa, o ancora peggio, il Postino di Poste Italiane che ormai si trova, suo malgrado, a dover recapitare solo messaggi di orrore e sventura, per capirci bollette e quant’altro.

Cagliari, 17 agosto 2016


Fabio Barbarossa

L'Informazione

Mai come in questi ultimi tempi l'informazione Radiotelevisiva sta giocando un ruolo determinante nella vita di ognuno di noi. Attraverso i telegiornali e i radiogiornali stabiliamo , in tempo reale, quale sarà  l'umore della nostra giornata. Dalla semplice agitazione a  vere e proprie crisi di panico condizionano ormai i nostri rapporti col mondo circostante. A corollario dell'informazione così detta ufficiale, siamo bombardati poi da una serie di informazioni incontrollate, corredate da immagini e filmati che spesso non hanno nessuna attinenza temporospaziale col fatto stesso. In questo internet la fa da padrone. Ma volendo stendere un velo pietoso sull'informazione fai da te, vorrei concentrarmi sull'informazione cosi detta ufficiale. Quella di Stato. Quella che dovrebbe seguire criteri logici e deontologici, che dovrebbe essere capillare e comprensibile da tutte le fasce sociali, culturali e ideologiche di una nazione cosiddetta democratica come l'Italia. All'uopo si creano in estemporanea  delle vere e proprie task-force di informatori che pur di darci una notizia sono capaci, alcune volte, di inventarla. La cronaca di questi ultimi giorni, parlo purtroppo di stragi e  di fatti di sangue, ci viene somministrata a tutti i costi e a tutti i costi ci vengono date per certe situazioni che di certo  hanno a malapena la loro esistenza.  Vengono fatte Edizioni Straordinarie fiume, interrotte solo dai bisogni fisiologici di chi le fa e di chi, ahimè, le subisce. Il risultato è una serie di supposizioni  che spesso si dimostrano inconcludenti e lontane dalla realtà. Quella vera. L'obbiettivo principale di questa informazione pare sia diventato ormai solo "Isis si, Isis no" - "Islam si, Islam no". Nel frattempo chi le recepisce, e non ha un provvidenziale senso di autocontrollo, subisce una serie di emozioni che vanno dalla depressione all'ansia o a vere e proprie crisi di panico. Professionalmente mi capita  sempre più spesso di diagnosticare patologie psicosomatiche conseguenti non al fatto in se ma all'edizione  straordinaria. Per questo, da medico, sono arrivato alla conclusione che la miglior cura per queste patologie non è l'ansiolitico o l'antidepressivo, ne tanto meno un ciclo di sedute di analisi, ma semplicemente cambiare canale ed aspettare con calma che la notizia venga presentata in modo chiaro e inequivocabile. Basta avere un po' di pazienza e sangue freddo. Ne va' della nostra salute.

Cagliari, 25 luglio 2016


Fabio Barbarossa 

venerdì 22 luglio 2016

I fatti di Nizza

I tragici fatti di Nizza evidenziano l’inadeguatezza dei sistemi di sicurezza proposti dalle Nazioni Europee, dagli Stati Uniti d’America e da tutte quelle nazioni che si fondano su principi di libertà e solidarietà.  Lo evidenzia il fatto che sempre più frequentemente ad essere attaccate con atti di terrorismo sono proprio quelle nazioni che maggiormente avevano investito in integrazione, relegandola purtroppo a soli fatti di accoglienza e non a reale inserimento nella società civile. Per questo si sono create delle sacche di  deliranti recriminazioni terroristiche, religiose o pseudo religiose, proprio in  quelle nazioni dove maggiormente oggi si piangono le vittime. L’Italia,  ingenuamente, sta facendo lo stesso errore e in nome di un’accoglienza indiscriminata e senza regole sta creando un popolo eterogeneo di disadattati e disperati che prima o poi manifesterà il proprio disagio con atti che, nella migliore delle ipotesi, saranno di tipo banalmente delinquenziale. Quello che sta succedendo in questi giorni in Sardegna, in particolare a Cagliari in piazza Matteotti, denota innanzitutto una cattiva amministrazione e in secondo luogo fornisce la possibilità per l’accensione di una miccia esplosiva che prima o poi sfocerà in una rivolta. Non è a caso che la maggior parte dei terroristi attentatori avevano la nazionalità dello stesso luogo in cui hanno attuato il loro delirante proposito. Se poi a questa predisposizione delinquenziale si aggiunge una buona dose di disadattamento psichiatrico, il danno è fatto. Molti dicono, Papa Francesco compreso, che questa è una vera e propria guerra. Una guerra anomala che non si era mai vista nel corso della storia dell’umanità. Una guerra che si combatte con mezzi non convenzionali e pertanto non prevedibile neanche con il massimo della tecnologia militare. Una guerra che può sfociare in qualunque zona della nostra terra, senza preavviso e con azioni devastanti, come successo in Belgio, in Francia, nel Bangladesh, negli Stati Uniti. Molti benpensanti di professione minimizzano i fatti rapportandoli a meri calcoli statistici, ma dimenticando che il vero obbiettivo di questi crimini non è di sterminare l’intera umanità, ma di minare la libertà di pensiero, portando i popoli a chiudersi in una forma controproducente di odio e di sterile egoismo.
Sono un medico, e forse questo condiziona il mio pensiero, ma se provo a considerare il terrorismo come una Pandemia, ne abbiamo avute tante in questi ultimi anni come SARS, AVIARIA, EBOLA, per citare le più spaventose, mi viene in mente che il terrorismo, alla stessa stregua di una Pandemia, può essere combattuto solo da uno sforzo comune dell’Umanità che la unisca in un unico obbiettivo. Sono stato medico formatore nella SARS e nell’AVIARIA, ho contribuito alla formazione dei medici di famiglia, capillari su tutto il territorio nazionale. Si sono preparati tutti i medici in quella che è stata definita una delle più importanti reti di prevenzione sanitaria. Si è creata all’uopo una nuova figura, i Medici Sentinella, che avevano il compito di valutare e denunciare tutte quelle varianti territoriali di salute che avrebbero portato, attraverso una rete gerarchica e di comunicazione, a fermare e risolvere, anche con strutture ospedaliere e di trasporto adeguate, la diffusione della malattia. E in questo, come si può evincere dalla storia, abbiamo vinto noi. Il terrorismo non è altro che una Pandemia. Una malattia di pensiero egoistico e di potere, che può essere combattuta solamente dal controllo del territorio e da tutti i cittadini di buona volontà, che attraverso una rete di comunicazione, dovranno avere in comune la crescita del pensiero e la libertà di poterlo attuare.

Fabio Barbarossa

Pubblicata in parte su
L'Unione Sarda del 22 luglio 2016

martedì 5 luglio 2016

Una Zia in prestito

  -        Buonasera zia Grazietta.

  -        Buonasera. Chini sesi? (chi sei ?)

  -        Mamma, è su dottori. Dottor Barbarossa -      risponde   velocemente la figlia.

-         Ah, Don Ferdinando. Sieda qui che preghiamo.

-         Si - rispondo per non deluderla.

-        Allora: Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Padre nostro  che sei nei Cieli, sia santificato il tuo nome…

E così via, insieme a lei recito il Padre Nostro e un Avemaria. Non che mi faccia male, miscredente come sono.
Non vedente e con l’udito che comincia a non farla sentire, zia Grazietta, appena compiuti 100 anni, è seduta su una poltrona in una cucina candida, con due figlie che le fanno compagnia e l’accudiscono in ogni cosa.
Dopo la preghiera e un paio di brebus antigus (parole magiche antiche, sarde, capaci di guarire malattie  o preservare gli uomini da malefici e dalla presenza del Diavolo)  recitati da zia Grazietta con lucidità mentale inimmaginabile, mi faccio riconoscere.

-         Zia Grazietta. Sono il dottore!

-         Dottor Barbarossa?

Mi prende le mani e, con lo sguardo perso nel vuoto, mi risponde:

-    Dottore,  sieda qui, vicino a me. Sono contenta che sia venuto a    trovarmi.

-         Sono contento anche io di rivederla.

-         Mangi un gelato. Lo vuole?

-         Si. Grazie. Volentieri.

E mentre mangio il gelato, cortesemente offertomi dalle figlie, zia Grazietta mi racconta cose di altri tempi. E’ un fiume in piena. Lucida, cortese, non perde mai il filo del discorso. Quanto c’è da imparare ad ascoltare la saggezza e la bontà in persona. Ogni qualvolta cerco di salutarla per continuare le mie visite domiciliari, mi stringe le braccia e mi trattiene con una forza insospettabile.

-    Mamma. Il dottore deve andare.

-    Ah si. Va bene. Torni presto, dottor Barbarossa. Venga a trovarmi. Mi fa piacere.

-    Certo, zia Grazietta. Tornerò a trovarla al più presto.

E dopo aver salutato mi accingo ad uscire e con la coda dell’occhio vedo zia Grazietta che abbassa la testa e in silenzio piange con le lacrime che le scendono sulle ancora giovani guance.
Dentro di me piango anch’io, esattamente come sto facendo in questo momento.
Storie meravigliose di vita vissuta.

Fabio Barbarossa

Medico di campagna

giovedì 23 giugno 2016


Questa mattina, Ufficio Postale via Della Pineta, Cagliari. Bell'aspetto all'esterno con insegna Poste Italiane. Dopo le formalità di ingresso, con doppia porta, mi trovo proiettato in un'altra dimensione. Se non fosse per la mancanza di un lettino chirurgico sembrerebbe proprio di trovarsi in una sala operatoria. All'interno tre attempate signore gestivano un piccolo feudo di potere amministrativo. 
Come mio solito saluto con voce possente e inequivocabile. Ci sono solo io.


- Buongiorno!

Nessuna risposta. Una delle signore mi guarda impassibile e continua a fare qualcosa che nessun comune mortale saprà mai.
Risaluto.


- Buongiorno!


Niente.
Allora mi guardo intorno e scorgo una specie di totem che produce biglietti. Forse sarà l'interprete. Chiedo:

 
- Devo fare il ticket?


- Certo!


risponde schifata una delle tre come avesse appena schiacciato una cacca di cane.
Ok. Come sono ignorante. Pensavo fosse un dispensatore di bibite.
Cerco la soluzione. Diversi pulsanti e diverse occasioni. Calco il pulsante che mi sembra più idoneo. La macchina partorisce un biglietto e dopo pochi secondi il suo numero compare sul display sopra uno sportello. E' il mio.

 
- Buongiorno. Devo mettere dei soldi nella carta prepagata postepay. 


- Lei e' correntista?


- Non lo so. Volevo solo mettere dei soldi.


- Ripeto. Lei è correntista?


- No, non credo.


- E allora, perché ha preso questo biglietto?


Sbraita seccata la burocrate.


- Non lo so. Mi scusi. Sono un medico di campagna. Non sono pratico di queste innovazioni.


- Va bene! Documento e codice fiscale!


- Mi scusi. Il libretto di circolazione ce l'ho in macchina. Le serve?


- Dia qua! Ecco fatto. Arrivederci.


- Sarà ben difficile.


Fabio Barbarossa

venerdì 17 giugno 2016

Il ruggito dell'agnello

A proposito della disquisizione se sia meglio il latte sardo o il latte romeno, mi sono fatto l'idea, non nuova peraltro, che la Sardegna, e noi sardi, stiamo morendo di troppe parole. Troppe parole e pochi fatti. Ognuno di noi ha una responsabilità, diretta o indiretta, su ciò che ci sta succedendo. Lavoro come medico di famiglia da circa 30 anni nel Gerrei, una realtà agro pastorale della provincia di Cagliari. Ho assistito al declino e all'abbandono di quasi tutte le attività produttive. Dalla pastorizia, maggior fonte di reddito, all'agricoltura. La stessa industria, legata alla miniera di Silius, e' miseramente fallita lasciando un baratro occupazionale, dove solo coloro che avevano raggiunto l'età pensionabile riescono a malapena a sopravvivere. I vari comuni della zona sono subissati di richieste di contribuzione per il pagamento di bollette e di tutto ciò che serve per sopravvivere dignitosamente. Se poi parliamo di industria agro pastorale il danno avvenne alla fine degli anni novanta, quando, a San Nicolò Gerrei, un caseificio fiore all'occhiello della produzione sarda ed esportatore nazionale ed estero, che iniziava già da allora la produzione e vendita dei prodotti caprini sotto la supervisione dell'Università di Cagliari e della Clinica Pediatrica, fallì miseramente disperdendo un patrimonio commerciale e culturale che poi venne sviluppato, com'è facile vedere, dalla Francia con la distribuzione di propri prodotti nei suoi market presenti su tutto il territorio della nostra terra. L'industria più florida in questo territorio, e di gran parte della Sardegna, resta ormai solo l'assistenzialismo e, quando questo finirà, non resterà della nostra terra che un involucro vuoto in balia del primo investitore che sarà in grado, a basso costo, di acquisire tutto il patrimonio e le ricchezze della nostra amata Terra. Quando poi qualcuno dei signori governanti, regionali e nazionali, si lanciano in previsioni auspicabili di ripopolamento della Sardegna da parte di forze esterne, prevalentemente extracomunitarie, che oltre alla forza lavoro dovrebbero contribuire, dato l’alto indice di natalità, alla ripopolazione della nostra terra, lo sconforto mi pervade e nel contempo mi impone di gridare la mia rabbia. A tal proposito la cronaca di qualche giorno fa riporta una rivolta da parte di una comunità di nigeriani, ospiti a Sadali di un albergo in cui pochi sardi possono permettersi il lusso di soggiornare, per rivendicazioni che hanno del ridicolo e che offendono la famosa e proverbiale ospitalità dei sardi. Questa è la nostra situazione e questo è lo sfascio della nostra cultura dove in nome di un buonismo e altruismo sconsiderato si toglie la dignità a chi ogni giorno, a costi di grandi sacrifici e privazioni, tiene ancora alto l’orgoglio e l’onore di essere sardo

Fabio Barbarossa

giovedì 9 giugno 2016

come nascono i bambini?

Tutto si può augurare ad un  medico, ma essere chiamato a domicilio  in un piccolo paese di provincia per un parto precipitoso, questo no! E’ troppo anche per un medico scafato e coraggioso  come me. Primi giorni di ottobre di oltre venti anni fa. La serata, intendo quella professionale, volgeva al termine e nella mia mente era contemplato solo il ritorno a casa per godere, finalmente, il meritato e sofferto riposo. Mentre varcavo l’uscio dell’ambulatorio vedo in lontananza il sopraggiungere di una mottocarrozzella con dentro un signore visibilmente agitato.  Vuoi vedere che sta cercando me? Ebbene si!
-        -  SU DOTTORI, PO PRESCERI, POIDI BENNI A DOMMU? FILLA MIA ESTI ANGIENDI!!!! ( Traduzione Sardo-Italiano: Dottore, per favore, può venire a casa che mia figlia sta partorendo?)
Tale terminologia derivava dalla vita agro pastorale e datosi che il signore di professione faceva il pastore, si adattava perfettamente all’uso.
Sul momento, li per lì, non ho capito bene e mi sono illuso che “angiendi” volesse dire tutt’altro che “partorendo”.
Niente da fare. Stava proprio partorendo. Dico al signore che avrei preso i ferri del mestiere e sarei arrivato di li a poco.
Cosa passi per la mente di un medico di campagna, a settanta chilometri dal primo ospedale, investito di tale responsabilità   non è facile sapere. So solo che in quel momento sono stato colto da una crisi confusionale e a malapena ho realizzato che essendo mammiferi le nascite avvenivano attraverso il parto e non per gemmazione o con la deposizione delle uova. Fortunatamente il sangue freddo, tipico delle bisce e dei medici di campagna, mi ha consentito di ragionare e di cercare, nella mia nutrita libreria, un testo sacro e pratico che mi illustrasse, anche con schizzi e fotografie, intanto qual’ era la direzione d’uscita del feto e quale fosse la tecnica più evoluta del semplice “signora spinga”!
Dopo aver realizzato la strategia ed essermi dotato di materiale adatto, flebo, farmaci, alcool, cotone, aghi e l'immaginetta di Sant'Anna, protettrice delle partorienti, mi sono recato violentemente nella casa del parto.
La visione che mi si prospettò poteva essere paragonata solo ad un attentato a Beirut nei tempi caldi. Oggi ne sarebbe stata sconsigliata la visione ai minori, ai deboli di cuore e con particolare sensibilità al sangue. La puerpera giaceva adagiata in un letto, per l’occasione e con molta fantasia, ginecologico. Sotto di lei un lenzuolo in origine bianco  intriso di sangue. Il bambino, malgrado tutto già nato, piangeva disperatamente, e l’ostetrica, presente dall’inizio del parto, casalingo e premeditato, giaceva su una poltrona, penzoloni e con la testa iperestesa  verso la schiena. Dopo aver chiesto informazioni all’ostetrica ed everne ricevuto in cambio solo bofonchi senza senso, mi dedicai immediatamente alla puerpera e, con una fleboclisi di Syntocinon, bloccai immediatamente l’emorragia. Messo tutti in sicurezza, ostetrica compresa, inviai madre e figlio in ospedale per le cure del caso. Col poco fiato rimastomi, ringraziai tutti e ripresi la strada del ritorno con grande soddisfazione. Ancora oggi incontro questo grande giovanottone, mio paziente, a cui solo recentemente ho raccontato, tra una risata e l’altra, la sua rocambolesca venuta al mondo.

Fatto realmente accaduto.

Fabio Barbarossa
                

venerdì 6 maggio 2016

Sa Die De Sa Sardigna

L’Assessora Claudia Firino ci tranquillizza sul fatto che Sa Die De Sa Sardigna sia una giornata in cui da tempo si sceglie un tema da abbinare, ed eventualmente da approfondire, nel corso dell’anno. Per questo nel programma della ricorrenza attuale era normale , per lei, che si parlasse di migrazione, paragonando i migranti attuali con i nostri sardi nel mondo. Niente da dire sulla sofferenza che attanaglia un popolo che fugge dalla sua terra. La sofferenza è uguale per tutti, non ha colore ne sapore. Ma, a mio modesto parere, c’erano altri temi da approfondire, evidentemente inerenti a quella famosa giornata del 28 aprile 1794. Gli stessi problemi che, a parte la data e il tempo, sono rimasti per certi versi invariati e irrisolti. Allora il popolo sardo era sotto la tirannia del governo piemontese e di questo si liberò, ora invece i tiranni sono molteplici e non c’è che l’imbarazzo della scelta ad individuarli. Sia ben chiaro che non ne faccio una questione politica. Sarebbe troppo semplice e troppo comodo. L’assessora Firino che parla al passato remoto di migrazione dei sardi, forse non si è accorta che nello stesso momento in cui la Sardegna accoglie migliaia di extracomunitari, che finiscono perlopiù a fare accattonaggio in strade e semafori delle nostre città, gran parte dei giovani sardi migra nel resto del mondo alla ricerca di un lavoro o una collocazione sociale ragionevole e dignitosa. Spesso con laurea in tasca e con nel cuore la propria famiglia e la propria terra, per aspirare al massimo a fare il cameriere o il lavapiatti in città come Londra. Certo, alcuni si contraddistinguono per le loro grandi capacità e competenza, ma ad accorgersene non sono certo i nostri politici, bensì coloro che all’estero hanno la lungimiranza di verificarne le qualità e il ruolo. Se poi, nessuno me ne voglia per il paragone, si dovessero mettere sul piatto della bilancia le sofferenze dei migranti, i sardi di un tempo non starebbero certamente dietro a quelli attuali. Mi viene in mente il dialogo di qualche giorno fa, avuto con un mio paziente al capezzale della sua consorte gravemente malata. Mi parlava della sua emigrazione all’età di vent’anni, quando per puro miracolo non fu tra i 136 italiani che morirono nella miniera di Marcinelle nel Belgio. Lavorava strisciando per terra a millecinquecento metri di profondità in cunicoli di una miniera di carbone con in tasca un topolino che con la sua morte avrebbe segnalato la presenza di grisù. Assessora Firino, il suo compito è molto complesso, la cultura non ha e non può avere limiti. Però, mi creda, lo dico da sardo orgoglioso di esserlo, prima di scegliere argomenti da abbinare e sviluppare, provi ad ascoltare, come faccio io da sempre, i racconti di persone come il Signor Cabboi di San Nicolò Gerrei e il Signor Agus di Escalaplano, che in fatto di cultura sarda avrebbero molto da insegnare.  


Fabio Barbarossa

(Pubblicato su L'Unione Sarda del 3 maggio 2016)

martedì 19 aprile 2016

Una storia come tante





-         Buongiorno signor Giovanni
-         Buongiorno dottor Fabio
-         Come sta?
-         Io bene, grazie. Lei?
-         Non c’è male, grazie
-         Giuseppa?
-         Eccola qui. Sempre serena, lei.

Seduta su una sedia a rotelle, in una stanza grande e confortevole, illuminata da una bellissima giornata di primavera, una povera donna col sorriso sulle labbra,  ma  totalmente assente. L’Alzheimer questo fa. Mi siedo su una sedia e scambio due parole con Giovanni. Giovanni, classe 1936, non dimostra i suoi 80 anni. Uomo di grande integrità morale e lucidità mentale, grande lavoratore, sardo verace, di Escalaplano, manifesta con orgoglio le sue origini. Nel tempo che ha a disposizione, dopo aver accudito amorevolmente sua moglie, si dedica alla campagna, nella quale ha sempre creduto.

-         Signor Giovanni, dove ha vissuto?
-         Caro dottore, la mia vita mi ha riservato tante sorprese. Quando la nostra terra non mi ha dato la possibilità di vivere dignitosamente, sono partito per il Belgio alla ricerca di lavoro.
-         Cosa faceva in Belgio?
-         Il minatore, in una miniera di carbone. Ci facevano fare una visita attitudinale a Verona e poi, se ti davano l’idoneità, potevi entrare in miniera a lavorare.
-         Com’era il suo lavoro? Glielo chiedo perché io sono nato in un paese di miniera, nel Sulcis Iglesiente, e molti miei parenti, come ad esempio mio nonno, erano minatori.
-         Ho lavorato in una miniera di carbone, tristemente famosa. La miniera di Marcinelle.  Lavoravamo coricati per terra, strisciando sul fondo, anche a millequattrocento metri di profondità.  Ero presente quando avvenne la tragedia. Morirono 262 minatori di  cui 136 Italiani. Ci fu un incidente tecnico che fece esplodere il grisù, drammaticamente presente in quel tipo di miniera. Tanti morti e pochissimi superstiti.
-         Come funzionava sotto? C’erano misure di sicurezza?
-         Le misure di sicurezza - risponde con un sorriso – erano i topi che vivevano in miniera. Quando loro scappavano, era segnale rosso. Raccontavano di un padre e un figlio, ritrovati sotto terra, abbracciati nella morte.

Si rattrista, e così succede anche a me. Penso ai miei avi e a tutti coloro che partirono dalla Sardegna, con la valigia di cartone legata a spago, alla ricerca di un lavoro onesto.
L’8 agosto del 1956, alle ore 8,10,  a Marcinelle, zona mineraria del Belgio, si consumò una delle più grandi tragedie che hanno mai colpito lavoratori italiani nel mondo.
Per una fortunata circostanza non morì neanche un sardo perché il loro turno era quello pomeridiano.
140 mila emigranti italiani, attraverso un accordo Italia Belgio, vennero attratti da manifesti che comparivano in tutte le città italiane.
Dicevano “Solo 18 ore per arrivare in Belgio”, erano indicati i salari, certamente superiori a quelli italiani. Promettevano “Assenze giustificate per motivi di famiglia, carbone gratuito, biglietti ferroviari gratuiti, premio di natalità, ferie, vito e alloggio presso la cantina della miniera, contratto annuale” e poi, per accelerare la decisione, “compiute le semplici formalità, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio”. Ma non era vero niente. Nei manifesti non si parlava di silicosi, non si parlava di grisù, gas che inesorabilmente si sprigionava dalle pareti e facilmente si incendiava. Non si parlava dei topolini che i minatori tenevano in tasca e dei tanti canarini in gabbia che con la loro morte avrebbero segnalato la presenza del gas micidiale, alcune volte quando ormai era già troppo tardi.
Questo erano i nostri conterranei, e questa era la loro vita. Quando qualcuno, tendenzialmente ignorante, dice che anche noi sardi siamo stati emigranti e abbiamo avuto tutti i confort, accettati e integrati in tutti gli ambienti esteri, dovrebbe farsi un esame di coscienza ed ascoltare, magari per pochi minuti, ciò che uno dei tanti Giovanni Agus o Mario Cabboi, possono ancora raccontare. Chiaramente avendone il coraggio e senza che le lacrime allaghino i suoi occhi.


Fabio Barbarossa